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Writer's pictureStefano L. Lorusso

[Left] - Najah Albukai, la mano che disegna le torture di Assad

Updated: Nov 11, 2019

Il regime di Assad sta aggiornando, in modo discreto, i registri dello stato civile. Centinaia di oppositori, arrestati all’inizio della Primavera siriana, sono ufficialmente dichiarati morti. Najah Albukai avrebbe potuto essere uno di loro. Ma è sopravvissuto.


di Stefano Lorusso Salvatore


Di sicuro c’è solo che sono morti. Chi è stato a tradirli? Dove sono stati uccisi? Come? E quando? Non hanno ricevuto né il corpo, né il certificato di decesso, né informazioni sulla sepoltura. Ma centinaia di famiglie siriane, senza notizie loro cari arrestati dai servizi segreti siriani, hanno ormai una sola certezza. Da qualche mese il regime di Assad ha iniziato ad aggiornare i registri di stato civile, ufficializzando la morte di centinaia di siriani dati per dispersi. Le cause della morte non sono menzionate. L’ong Syrian network for human rights (Snhr) riporta 836 casi di decessi tra i siriani spariti nel nulla durante la rivoluzione, ma stima a 82 mila il numero di siriani spariti a seguito di un arresto.


Tra questi, poteva esserci anche Najah Albukai, professore di disegno che tra il 2012 e il 2014 ha trascorso più di un anno nelle galere del regime di Assad. È stato umiliato, il suo corpo mortificato. Ha visto decine di prigionieri agonizzare, poi morire, massacrati dalle torture. È stato vittima e testimone di sevizie atroci, di cui le immagini sono scolpite per sempre nella sua memoria e, ormai, sulla carta. “Ho conservato la mia salute mentale grazie al disegno”, spiega il sopravvissuto che ha partecipato ai primi focolai della rivolta nella primavera del 2011.


“L’operazione discreta di Bachar al-Assad mostra una cosa: il dittatore è sufficientemente sicuro di aver vinto la guerra da poter permettersi di ammettere la morte di migliaia di persone senza temere ripercussioni dalla comunità internazionale”, analizza il disegnatore.


I numeri raccolti da Snhr lo fanno rabbrividire. Secondo le stime indipendenti della ong siriana, 13 mila persone disperse avrebbero già trovato la morte. Ma se il governo non cita le cause dei decessi sui documenti rimessi alle famiglie, i margini di dubbio restano ristretti se si considerano le pratiche in vigore nelle prigioni siriane. “Sono sicuramente morti a causa delle torture e delle malattie contratte nelle celle, oppure giustiziati a seguito di processi sommari”, commenta Najah, vivo per miracolo.


Questo quarantottenne che oggi ha trovato asilo politico in Francia non era né un militante ribelle, né un fanatico religioso. Najah Albukai, professore laico, protestava contro le restrizioni di libertà sotto Assad. Partecipò a qualche manifestazione nella fase nascente della rivoluzione siriana, soprattutto a Daraya e nella Ghuta occidentale, gli epicentri popolari e pacifici dei primi mesi. Poi, una mattina soleggiata di luglio, un soldato gli punta un kalashnikov al petto ad un posto di blocco. Sfila dalla tasca un foglio sgualcito, cerca il suo nome. “Scendi, traditore!”, gli urla. “Ho capito subito che dovevo prepararmi al peggio”, ricorda il quarantottenne.


“Credevano fossi l’organizzatore delle proteste per via del mio statuto di professore.

Sapevo che il mio nome fosse su quella lista, ho sottovalutato il pericolo”, ironizza. È accusato di “indebolimento dei sentimenti nazionali e subito tradotto nel centro 227, prigione gestita dai servizi segreti, di fianco alla facoltà di medicina di Damasco. L’odore acre del sudore mischiato al sangue gli brucia ancora nelle narici. In prigione, vede decine di corpi appesi per i polsi al soffitto, braccia disarticolate, ferite, mutilazioni, strangolamenti.


Najah non ha mai smesso di riflettere al periodo di prigionia. “I soldati ti torturano non solo per farti del male fisico. Vogliono entrarti nel cervello, spezzare le tue resistenze, farti gridare fino a sottometterti. L’interno sistema carcerale è costruito per convincere i siriani che qualcosa come quel che è avvenuto nel 2011, non avrà mai più luogo”.


Uno dei suoi disegni più strazianti incide le urla dei torturati sulla carta. Najah racconta con freddezza: “I servizi volevano spezzarci la volontà, ma non solo. Tra le pene corporali, la peggiore era la sedia tedesca. Ti distendono al suolo. Una sedia ti blocca all’altezza delle spalle mentre i soldati ti tirano le braccia, appoggiandosi sulle gambe. Ai meno elastici si fracassava la colonna vertebrale”.


“Il regime di Assad sta confermando quel che le organizzazioni di difesa dei diritti umani denunciano da mesi. E cioè che il governo siriano ha trattato la sua popolazione come carne da macello. Nel silenzio assordante delle potenze occidentali che si battono il petto ergendosi a difensori dei diritti umani. Alla comunità internazionale non interessano queste morti” accusa Najah, amareggiato. Potrà, un giorno, tornare nel suo paese? “Per me, tornare a vivere sotto Assad sarebbe una sconfitta”, risponde senza esitazione. La Siria gli evoca una profonda tristezza. La ritrova tutti i giorni, sulle note calde del suo oud.

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